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Myanmar Sotto Shock: Corsa Contro il Tempo per Salvare Vite tra le Macerie

Provate a chiudere gli occhi. Sentite il silenzio innaturale che segue un boato assordante? Poi, quasi un sussurro, un lamento flebile che si fa strada da sotto tonnellate di cemento sbriciolato. È un suono quasi impercettibile, eppure potentissimo. Riaccende la speranza proprio quando tutto sembra finito. Nel cuore del caos scatenato dal devastante terremoto Myanmar, quel filo di voce diventa la melodia più preziosa. È la benzina che alimenta i soccorsi Myanmar, squadre che lottano contro il tempo, un nemico invisibile e implacabile. Una corsa disperata, perché ogni singolo minuto strappato alle macerie può significare una vita salvata.

Sembra quasi una sceneggiatura, vero? Eppure, anche quando l’orologio ha superato quella soglia critica delle 72 ore – il limite che la statistica indica come spartiacque per trovare persone vive – qui in Myanmar la speranza si è aggrappata con le unghie e con i denti. Nelle ultime ore, almeno tre persone sono state estratte vive. Piccoli, incredibili miracoli che squarciano il buio. Sono i sopravvissuti terremoto che ci ricordano perché non bisogna mai mollare.

Pensate a quella donna, rimasta prigioniera per 60, lunghissime ore tra ciò che restava di un hotel a Mandalay. L’hanno liberata dopo cinque ore di lavoro certosino, millimetro dopo millimetro. I soccorritori cinesi si muovevano come chirurghi, con una delicatezza quasi surreale in mezzo a tanta distruzione. Quando è emersa, era cosciente, stabile. Un miracolo. L’hotel? Immaginate un gigante ferito, inclinato in modo spaventoso, il piano terra letteralmente polverizzato dalla furia di questo terribile sisma Asia. Scene da far accapponare la pelle.

E poi c’è lui, un bambino. Sepolto per oltre 65 ore sotto le macerie di un condominio collassato. Ogni blocco di cemento rimosso era una preghiera muta. Ritrovarlo vivo… beh, potete immaginare le lacrime, la gioia che esplode tra la polvere e la fatica sui volti dei soccorritori. Le squadre cinesi da sole, finora, hanno riportato alla luce tre persone, compresa una donna incinta. Vite che pesano come macigni di speranza in questa drammatica emergenza Myanmar.

Ma la terra, purtroppo, non concede tregua. Come se la scossa iniziale – un mostro di magnitudo 7.7 che ha spazzato via edifici non solo in Myanmar ma ha causato danni persino in Thailandia, facendo crollare un grattacielo in costruzione a Bangkok – non fosse abbastanza, domenica è arrivata una scossa di assestamento di magnitudo 5.1. Forse non abbastanza potente per altri crolli massicci, ma di certo sufficiente a far ripiombare tutti nell’angoscia e a rendere ancora più complesse e pericolose le operazioni di soccorso. Ogni vibrazione è un pugno nello stomaco per chi scava e per chi è ancora intrappolato là sotto.

E mentre si scava senza sosta, le Nazioni Unite lanciano un allarme che non possiamo ignorare: il rischio di una crisi umanitaria Myanmar è spaventosamente alto. Il bilancio ufficiale parla già di oltre duemila morti – un numero, purtroppo, destinato a salire – a cui si aggiungono feriti, sfollati, infrastrutture vitali distrutte. Serve tutto, subito: acqua potabile, cibo, medicine, ripari sicuri. Gli aiuti internazionali si stanno muovendo, ma la situazione è un vero e proprio dramma a cielo aperto.

Provate a sentire la disperazione nelle parole di chi aspetta. “Ho chiamato mio marito non so quante volte. È là dentro”, racconta una donna, la voce rotta. “Forse 200 chiamate al giorno, ma non risponde. Continuo a provare. Magari mi chiama lui, per chiedere aiuto, per dirmi dove sta, come sta… è tutto quello che voglio sapere.” Suo marito era il pilastro della famiglia. “Senza di lui, non so cosa faremo. Voglio solo che sia salvo.”

È un’attesa che logora, un dolore sospeso condiviso da troppe famiglie. “Aspettiamo ancora”, dice un altro parente fuori da un edificio crollato. “Non abbiamo perso la speranza, ci facciamo forza a vicenda. Speriamo che ai nostri cari non sia successo niente di grave. Spero in un miracolo. Spero che li trovino, che i soccorritori sentano un battito, un respiro… E se non ce l’hanno fatta, che almeno li recuperino, per poter dare loro un addio.” Parole che scavano dentro.

La macchina dei soccorsi, però, non si arrende. Lavora giorno e notte. Cani addestrati fiutano tra le macerie, mezzi pesanti rimuovono detriti con la massima cautela, quasi un lavoro di archeologia della speranza. Team locali e internazionali, una sorta di protezione civile globale, lavorano fianco a fianco. È una lotta contro il tempo, certo, ma anche contro la fatica fisica e lo scoramento che a volte prova a farsi strada.

La solidarietà globale, per fortuna, si è attivata. Paesi vicini come India, Cina e Thailandia sono stati tra i primi a inviare squadre e risorse. Ma stanno arrivando aiuti anche da più lontano: Malesia, Singapore, Russia. Un piccolo esercito della speranza che si unisce agli sforzi locali, portando competenze e attrezzature. Ogni vita salvata è una vittoria enorme. Ogni corpo recuperato permette a una famiglia di iniziare il doloroso percorso del lutto. La strada per la ricostruzione sarà lunghissima e richiederà risorse immense. Ma adesso, l’unica cosa che conta è continuare a scavare, continuare a sperare, continuare a lottare per ogni singolo battito di cuore sepolto sotto le macerie del Myanmar.

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