Ricostruire dalle macerie? È la melodia che accompagna ogni alba dopo la tempesta di una guerra. E per la Siria, terra sfregiata da anni di conflitto indescrivibile, questa melodia ha un nome: “governo della ricostruzione e del cambiamento”. Così l’ha battezzato sabato scorso il presidente ad interim, Ahmed al-Sharaa, presentando la sua nuova squadra. Parole che suonano quasi come una promessa di pace dopo il frastuono assordante delle bombe. Ma, come spesso accade in quel complicato scacchiere del Medio Oriente, la realtà è una coperta troppo corta, e dietro la facciata scintillante si cela una trama ben più intricata, forse persino amara. Pronti a gettare uno sguardo oltre il sipario?
Questo nuovo esecutivo nasce con l’ambizioso obiettivo della ricostruzione Siria, ma la sua stessa composizione solleva interrogativi. Annunciato il 29 marzo, il team di al-Sharaa vede una presenza femminile ridotta al lumicino: una sola donna, Hind Kabawat, figura rispettata dell’opposizione cristiana storica al regime di Bashar al-Assad, a cui è stato affidato il Ministero degli Affari Sociali e del Lavoro. Una scelta simbolica, certo, forse un ramoscello d’ulivo teso alla comunità internazionale e alle minoranze. Ma basta davvero una rondine a fare primavera in un cielo ancora così carico di nubi? Viene da chiedersi se sia un segnale di reale inclusività o una pennellata di rosa su una tela ancora prevalentemente grigia. La situazione della politica siriana rimane complessa, intrecciata con questioni delicate come i diritti umani.
La maggior parte delle poltrone ministeriali, come sottolineato anche da fonti come la
Deutsche Welle
, è andata a figure molto vicine ad al-Sharaa. Sorpresi? Non proprio. Il potere, si sa, tende a consolidarsi. E infatti, i ministeri chiave come Esteri e Difesa restano nelle mani di chi già li deteneva durante il periodo di transizione sotto la sua guida. Un segno di continuità necessaria o un sintomo di immobilismo? Solo il tempo potrà dirlo, ma la sfida per il governo interim è enorme.
Sentiamo le priorità dichiarate dal leader ad interim: sulla carta, un vero libro dei sogni. Ricostruire il paese dalle fondamenta, creare uno stato solido e stabile (chi non lo vorrebbe?), tutelare gli interessi della nazione e di ogni singolo cittadino. E poi, l’immancabile lotta alla corruzione, il rafforzamento dell’esercito e il rilancio dell’economia. Un programma che farebbe gola a chiunque. Ma, concedetemi la domanda diretta: con quali risorse si finanzierà questa titanica opera di ricostruzione? Come si può parlare di stabilità e tutela quando, solo poche settimane fa, il paese era teatro di eventi che molte organizzazioni definiscono una tragedia umanitaria?
È fondamentale fare un passo indietro per afferrare il contesto. Dicembre 2024: il regime decennale di Bashar al-Assad crolla sotto l’avanzata delle forze islamiste, guidate dal gruppo Hayat Tahrir al-Sham (HTS). Un vero terremoto politico. Ma la quiete dopo la tempesta dura un soffio. A marzo 2025, le nuove autorità lanciano una vasta operazione militare. Obiettivo? Le province di Latakia, Tartus, Hama e Homs, per sedare una presunta rivolta di sostenitori dell’ex regime accusati di attacchi. Ed è qui che la cronaca si tinge di nero.
Le organizzazioni per i diritti umani parlano di una repressione feroce, con un bilancio drammatico: circa 1.500 civili uccisi, molti appartenenti alla comunità alawita, la stessa di Assad. Migliaia di altre persone sarebbero sfollate, trovando rifugio quasi disperato nella base aerea russa di Hmeimim. Pensateci: civili in fuga che cercano salvezza in una base militare straniera… dice molto sulla fiducia verso il nuovo potere. Il 10 marzo, il governo di transizione dichiara conclusa l’operazione. Ma gli attivisti non usano mezzi termini: parlano di “mattanza”. Le autorità siriane assicurano indagini sulle violenze. Sarà sufficiente a placare i dubbi?
Uno scenario che non poteva lasciare indifferente la comunità internazionale. La Ministra degli Esteri tedesca, Annalena Baerbock, in visita nel paese, ha usato parole dure, definendo l’uccisione deliberata di civili “un crimine grave” e chiedendo al governo interim di assicurare i responsabili alla giustizia. Una pressione diplomatica importante, senza dubbio. Ma basterà a invertire la rotta, a garantire che le promesse di cambiamento non restino lettera morta? La strada per la Siria è ancora lunga, disseminata di ostacoli e macchiata da un sangue troppo recente. La speranza è che la parola ‘ricostruzione’ non venga soffocata dal persistente eco della violenza.